Le dating app sono in crisi. La fondatrice di Tinder e di Bumble, Whitney Wolfe Herd, dice di sapere perché e come renderle di nuovo popolari. “I GenZ oggi aprono le dating app e provano due sentimenti”, spiega in un’intervista al New York Times “si sentono giudicati e rifiutati”. Sentimenti che del resto conosce bene chiunque abbia passato anche solo un breve periodo a fare swipe.
L’intervista è anche un’operazione di rilancio della personalità di Whitney Wolfe Herd. Nata nel 1989, ha fondato Tinder a ventitré anni – prima è stata innalzata a esempio di girlboss, quando il termine andava di moda, e poi rapidamente fatta a pezzi dall’opinione pubblica. Ha lasciato Tinder a causa delle molestie sessuali subite, prima del MeToo. A venticinque anni ha creato Bumble che era, nelle intenzioni, un’app di dating un po’ più favorevole per le donne. Ma l’unica differenza era che su Bumble solo le donne possono scrivere il primo messaggio. Non proprio una rivoluzione femminista che cambia il mondo, ammette lei stessa oggi.
Wolfe Herd è stata anche promotrice di una legge contro le molestie online, che ha ridotto il numero di messaggi e soprattutto di immagini indesiderate (dick pics) inviate sulle app. I suoi colleghi maschi, i tech-bros, non erano certo così impegnati nel rendere internet un posto più equo. Con Bumble era riuscita a ripetere il miracolo di Tinder, ma il crollo di utenti ha colpito tutte le app di dating.
Wolfe Herd ha un grande piano per renderle di nuovo popolari, che include promuovere i profili che abbiano inserito un documento che verifichi la loro identità, questionari per “stabilire i valori personali” – questionari analizzati dall’intelligenza artificiale, pur con l’aiuto di “dating coach” e terapeuti di coppia umani. Si sfumano i confini fra il potere dell’algoritmo, dell’AI e il desiderio da parte di tutti di tornare a stare offline.
Perché chi non si sente “giudicato e rifiutato”, in realtà, sulle dating app ma anche sui social network? Quelli che un tempo erano spazi di condivisione sono stati sottoposti a un processo noto come enshittification, fenomeno per cui le piattaforme diventano prima meno divertenti, poi apertamente ostili, cioè non ci fanno sentire bene mentre le usiamo, per stessa ammissione di Meta, la società che comprende Facebook e Instagram sempre guidata da Mark Zuckerberg.
Ci sentiamo peggio dopo aver scrollato e anche durante l’utilizzo, ma continuiamo a usare i social a causa del meccanismo di ricompensa, basato sulla dopamina, che hanno attivato nel nostro cervello. Le apriamo sperando di trovare qualcosa che ci faccia sentire bene, anche solo la sensazione di “spegnere il cervello”. Per un attimo sembriamo rilassarci, ma subito ci porta a scrollare di più, e non troviamo mai niente che ci piaccia, siamo sempre lì noi stessi a giudicare e rifiutare.
Nelle dating app, rifiutare è la parte principale del processo di scelta, visto che si tratta di scartare la maggior parte dei profili per trovare il match. Sui social, giudicare è quello che facciamo dopo aver perso l’innocenza: la maggior parte dei contenuti ci sembrano inutili, vacui, superati, imbarazzanti. I GenZ (nati nel 1995-2010) infatti, che sono più attenti alla propria salute mentale rispetto ai Millennial (i nati 1981-1996), non condividono più niente. Hanno tutti profili scarni e privati; ma avendo del resto inventato loro il termine cringe, non si esimono dal giudicare i contenuti che pure continuano a consumare compulsivamente, soprattutto su TikTok.
Come uscirne? Alcuni hanno l’obiettivo di riuscire a stare chronically offline. Il punto è che, come dice la psichiatra Anna Lembke, autrice del pluribestseller Dopamine Nation (L’era della dopamina, ROI Edizioni), se tutti stanno online, la realtà davvero si svuota – diminuiscono le occasioni di socializzazione. Più che le dating app, è forse la realtà che va resa di nuovo popolare.